Brexit
Molti, pur deprecando la scelta di uscire dalla UE, hanno espresso il loro rispetto per la democrazia inglese, che ha offerto ai cittadini la possibilità di scegliere il corso del proprio futuro. Se però con “democrazia” non si intende solo il meccanismo per cui la maggioranza decide, ma piuttosto un sistema di freni e contrappesi, in cui congegni contro-maggioritari danno voce a tutti le componenti dello stato, allora la qualità democratica della Brexit è davvero bassa. L’articolo 50 del Trattato di Lisbona conferisce agli stati membri il diritto di recedere dalla UE “conformemente alle proprie norme costituzionali”, tentare un negoziato e, se questo fallisce, recedere comunque entro due anni. Si tratta di una novità nell’architettura europea: i Trattati istitutivi delle Comunità e dell’Unione non disciplinavano la facoltà di recesso, e non contenevano clausole di denuncia, circostanza che era sempre stata interpretata nel senso della irreversibilità del processo di integrazione. L’aver introdotto il diritto di recesso costituisce quindi una rottura, anche simbolica, di non poco conto. Il fatto che l’esercizio di questo diritto sia praticamente incondizionato, lo ha trasformato in una bomba dagli effetti devastanti.
Il recesso dall’Unione Europea e’ per molti versi analogo alla secessione di uno stato membro da uno federazione. Nessuna costituzione federale, però, offre agli stati membri la possibilità di secedere unilateralmente, con un semplice referendum. Quando la secessione non è proibita, essa è sottoposta a condizioni procedurali e sostanziali che mirano ad assicurare un procedimento di distacco inclusivo e democratico. In Canada, per esempio, dopo che, nel 1995, i secessionisti quebecois avevano perduto per pochi voti il referendum sull’indipendenza, la Corte Suprema ha stabilito alcuni condizioni che il Quebec deve rispettare se vuole avviare la procedura secessionista. La prima: il palesarsi di una “chiara maggioranza” a favore della secessione; la seconda: il condurre le negoziazioni sulla base dei principi che costituiscono il nucleo della Costituzione: federalismo, democrazia, stato di diritto, e tutela delle minoranze. Rispetto a questo modello, tuttavia, al diritto di recesso dall’Unione Europea manca qualsivoglia condizione necessaria per attivare il dovere di negoziare, ovverosia l’emergere in una consultazione referendaria di quella “chiara maggioranza” separatista all’interno di uno stato membro, che non è prevista dall’articolo 50, né, necessariamente, dalle norme costituzionali dei singoli stati. In altre parole, mentre in Canada il dovere di negoziare il recesso è saldamente ancorato alla legittimazione democratica e ai principi che costituiscono il nocciolo duro del patto costituzionale, l’articolo 50 lascia carta bianca a valutazioni puramente politiche e del tutto sganciate dai principi fondamentali dell’ordinamento europeo. Tra questi ultimi il Trattato di Lisbona elenca lo stato di diritto, la democrazia e i diritti delle minoranze, come Scozzesi ed Irlandesi del Nord, la cui volontà non può non avere alcuna rilevanza in una scelta cruciale come quella di uscire dalla UE.
Se il diritto di recesso fosse stato condizionato al rispetto di procedure autenticamente democratiche, esso avrebbe costretto la Gran Bretagna ad una lucida analisi del rapporto costi/beneficidel recesso, ed un’assunzione di responsabilità nei confronti dell’Unione. Al contrario, l’esistenza di un diritto incondizionato di recedere ha consentito a Cameron di strumentalizzare il referendum a fini puramente strategici, internamente, e nei rapporti con la UE. La tecnica di Cameron di prendere tempo e non comunicare tempestivamente al Consiglio l’intenzione di recedere fa sospettare che il fine del referendum inglese non sia il recesso, ma un’ennesima prova di forza con l’Unione, nella speranza di strappare condizioni più favorevoli per la membership inglese. Una lezione sulla pericolosità dell’uso disinvolto della minaccia secessionista ci viene dalla storia americana. Durante la Guerra di Secessione, il Commissario per la Secessione del Mississipi tentò di convincere il Governatore del Maryland a proclamare una secessione “non intesa a spaccare il paese, ma a perpetuarlo. Noi vogliamo secedere per ottenere maggiori garanzie… Il nostro piano per gli stati del Sud è di uscire dall’Unione per il presente per costringere il governo centrale ad adottare emendamenti alla Costituzione che garantiscano i nostri interessi”.
La lezione del pasticcio Brexit dovrebbe spingere l’Europa a rivedere l’articolo 50 e a stabilire regole per canalizzare un processo, come quello secessionista, che inevitabilmente è contestato, e spesso caratterizzato da un alto tasso di emotività e di irrazionalità, nelle regole della logica democratica.
Grazie per il suo spunto di discussione. Viste le numerose dichiarazioni di opt out della Gran Bretagna, i numerosi pareri motivati sul mancato rispetto del principio di sussidiarietà e il loro ruolo nell’inserimento dell’art.50, non ha sorpreso l’iniziativa britannica; l’UE conosceva già le loro istanze e le loro contrarietà. La Gran Bretagna anche prima del 2009 avrebbe tra l’altro potuto ricorrere alla Convezione di Vienna del ’69 ma in quel caso avrebbe dovuto provare che le condizioni alla base dei trattati fossero cambiate (e forse ci sarebbe riuscita). A mio modesto parere ora un negoziato corretto e senza contaminazioni sarebbe senz’altro la via migliore, poi l’Unione dovrà porsi l’obiettivo di portare la Gran Bretagna a chiedere nuovamente l’ingresso e di fare una più attenta analisi delle varie modalità (soprattutto extragovernative) con cui gli Stati membri manifestano il dissenso.