Il diritto a rifiutare le cure mediche nell’ordinamento italiano con particolare riferimento ai casi Welby ed Englaro: un tacito riconoscimento?
Il dibattito nato attorno al diritto del paziente a non sottoporsi alle cure mediche e, in taluni casi, come conseguenza, il diritto a morire (meglio, lasciarsi morire), riposa su un quadro normativo preesistente alla questione e, per ciò stesso, destinato a subire interpretazioni tali da rendere ammissibile il diritto in questione. La legislazione in materia, in effetti, non perseguiva il fine di riconoscere tale diritto al singolo; si pensi all’art. 32 Cost., probabilmente nessuno poteva supporre che da quella lettera poteva desumersi anche una sorta di diritto negativo, tale da consentire all’individuo di lasciar sopraggiungere la morte per malattia, pretendendo dai medici il rispetto della propria volontà a non essere sottoposto a cura alcuna. Tuttavia, se pure è il dettato costituzionale ciò che maggiormente ci interesserà, non si possono tralasciare le norme interne che a tale disposizione fanno, in qualche maniera, da “cornice” e, lette nel loro insieme, danno la misura del perché sia così difficile nell’ordinamento italiano indurre un legislatore a mettere fine a quella querelle che vede contrapporsi giudicati e posizioni dottrinali.
Partendo dal codice penale, in effetti, ciò che appare immediatamente inequivoco è la sua marcata filosofia di fondo, improntata al valore della indisponibilità della vita umana, un valore o, meglio, il valore che prevale di fronte al diritto all’autodeterminazione individuale. Sono molti, in effetti, gli articoli del codice penale che possono entrare in gioco nella valutazione delle decisioni mediche relative al fine vita. L’articolo 40, in primo luogo, poiché esso stabilisce che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo di impedire, equivale a cagionarlo”. In base a questo articolo, e considerato il fatto che il dovere professionale del medico è quello di salvare la vita ai pazienti, si desume, dunque, che, lasciare morire un paziente, su richiesta del paziente stesso, equivarrebbe al reato di omicidio del consenziente, anch’esso disciplinato dal codice. L’articolo 54 stabilisce, inoltre, che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”. Articolo, quest’ultimo, probabilmente più dibattuto del precedente art. 40, poiché esso viene spesso invocato per giustificare il mancato rispetto della volontà di pazienti in pericolo di vita, che vengono sottoposti a terapie d’emergenza contro la loro volontà: si pensi ai Testimoni di Geova sottoposti a trasfusioni di sangue, giustificate, appunto e, malgrado il loro credo glielo impedisca, da situazioni di urgenza. Vi sono poi gli articoli 575-576-577-579-580 c.p., che si riferiscono al reato di omicidio nelle sue varie
tipologie e circostanze aggravanti. Tuttavia, a noi interessano gli articoli 579 del codice penale, relativo alla punizione dell’omicidio del consenziente, nella cui fattispecie rientra l’eutanasia e l’articolo 593, che condanna l’omissione di soccorso, reato nel quale può incorrere il medico che assiste, senza intervenire, alla morte di un paziente a cui, per esempio, è stato staccato il respiratore automatico, oppure il sondino nasogastrico per l’alimentazione artificiale. Il codice civile si colloca nella medesima prospettiva, atteso che il suo art. 5 stabilisce che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. Secondo tale disposizione, dunque, non solo non ci si può lasciar morire, ma non ci si può nemmeno menomare, tanto che, per rendere operativa la legge sulla donazione di organi da vivente si è dovuta fare un’eccezione all’articolo 5 del c.c., atteso che privarsi di un organo equivale a menomarsi, secondo tale lettera.
Basando, dunque, l’intero ragionamento su tali disposizioni sembrerebbe conseguente la condanna e la negazione del diritto a rifiutare le cure mediche, ma, dicevamo, questa è “solo” la cornice, poiché la fonte suprema dell’ordinamento non segue tale scia, non soltanto perché è temporalmente successiva ai Codici, ma, in particolare, perché si tratta di una Carta garantista, improntata sulla tutela dell’individuo e dei suoi diritti. Proprio per tale ragione, il principio dell’assoluta indisponibilità della vita e del proprio corpo diviene più flessibile, tanto da divenire tutela del diritto alla salute, ma, altresì, diritto negativo, poiché la Repubblica si preoccupa di garantire le cure mediche, ma l’elemento, in qualche misura, rivoluzionario si rintraccia nel secondo comma dell’art. 32 Cost., secondo il quale “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, precisando che “la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto per la dignità umana”. La svolta è di grande rilievo, perché si passa da un impianto normativo improntato essenzialmente sul principio di indisponibilità della vita, ad un nuovo impianto, capace di accogliere le istanze del principio dell’autodeterminazione individuale. I Padri costituenti sono stati influenzati, senza dubbio, dall’approvazione, proprio in quegli anni, del Codice di Norimberga, che riconosce il diritto a rifiutare le cure, tuttavia pare assai riduttivo ascrivere la volontà ad una mera ispirazione “esterna”; piuttosto pare che l’Assemblea Costituente si sia volontariamente orientata all’accoglimento delle garanzie per i diritti, anche quello a rifiutare le cure mediche. È fuori da ogni dubbio che in quel momento si potessero conoscere i passi in avanti che la scienza avrebbe compiuto o che l’art. 32 Cost. avrebbe un giorno aperto il dibattito sul fine vita, tuttavia l’impianto basato sulla volontà e l’autodeterminazione del singolo che la Costituzione accoglie apre, ad oggi, problematiche di estremo rilievo, concedendo, a chiare lettere, la possibilità di rifiutare le cure mediche all’individuo.
È proprio all’interno (o a causa) di tale “dubbio normativo” che la dottrina si spacca nell’interpretazione del dettato costituzionale; secondo taluni, il limite della dignità umana si tradurrebbe nella indisponibilità della vita e, dunque, nella conseguente impossibilità per il paziente di rifiutare le cure mediche o lasciarsi morire. Secondo altra parte della dottrina, la dignità umana viene sacrificata nel momento in cui l’individuo non è più cosciente, incapace di intendere e volere, di nutrirsi da solo, di condurre una vita, appunto, dignitosa. Peraltro, la Costituzione parla di un diritto alla salute, ma se tale diritto, per malattia, non può più essere garantito perché la salute stessa si traduce in mera sopravvivenza grazie al supporto di strumenti medici, la volontà del paziente espressa o desunta dal suo stile di vita condotto precedentemente deve essere rispettata dal medico attraverso la sospensione delle cure.
Appare, in seconda battuta, impossibile negare quanto stabilito dalla Convenzione di Oviedo, ratificata dall’Italia nel 2001, e secondo la quale il rifiuto delle cure mediche è un diritto inviolabile del singolo. Tuttavia, l’entrata in vigore di tale strumento normativo è, ancora ad oggi, impedito dal mancato deposito della ratifica da parte dell’Italia.
È evidente che all’interno di un siffatto quadro normativo, in cui le norme si pongono marcatamente in contrasto tra loro ed il legislatore non interviene, è la giurisprudenza ad assumere un ruolo fondamentale, in particolare quella relativa a due casi concreti, Welby ed Englaro. Preme, altresì, precisare che le Corti, per quanto autorevoli, non possono (e non devono) sostituirsi al legislatore, divenendo dei “legislatori permanenti” o, nel caso della Corte costituzionale, un potere costituente permanente. Tuttavia, l’interpretazione che le Corti danno del quadro normativo esaminato apre uno spiraglio al diritto al fine vita e al rifiuto delle cure mediche. L’elemento singolare è che ciò avviene a contrario, ovvero la giurisprudenza non sanziona il diritto al rifiuto delle cure mediche ed il fine vita, parlando di diritto all’autodeterminazione, causando, in tal modo, una sorta di tacito riconoscimento del diritto stesso.
In particolare, ciò è evidente nei giudicati relativi al caso Welby, un caso estremamente particolare, come quello Englaro, poiché in tale caso la volontà del paziente, peraltro espressa grazie a dispositivi tecnologici, è inequivocabile. Piergiorgio Welby, affetto da distrofia scapolo-omerale, patologia classificata dalla letteratura medica come degenerativa dei muscoli scheletrici, ereditaria e lentamente progressiva, chiede, ancora capace di intendere e volere, di non essere sottoposto ad alcuna terapia medica, in particolare, chiede alla moglie di non chiamare i soccorsi in caso di crisi respiratoria. Tuttavia, la donna, dinanzi all’evento non trova il coraggio di rispettare la volontà del marito, al quale viene praticata una tracheotomia d’emergenza con conseguente necessità di supporto artificiale per la respirazione. La malattia di Welby, degenerativa appunto, lo costringe ben presto a non poter più camminare, comunicare attraverso la parola, nutrirsi, tanto da indurre l’uomo a chiedere la sospensione delle cure mediche, invocando il suo diritto a farlo, ovvero ad autodeterminarsi ed a disporre della propria vita. Tuttavia, il medico curante rifiuta di staccare la ventilazione artificiale ed il paziente si vede costretto, dopo una lettera al Presidente della Repubblica, a rivolgersi alla magistratura, attraverso un “ricorso d’urgenza volto ad ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale” risalente al 28 novembre 2006. Nel ricorso i legali di Welby evitano di usare il termine “eutanasia”, che, al contrario, il paziente aveva usato nella lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, in modo da fare apparire la richiesta come un semplice rifiuto delle cure, fondato sull’articolo 32 della Costituzione italiana. Il giudice, con ordinanza depositata il 16 dicembre 2006, dichiara il ricorso di Welby inammissibile, ma compie un piccolo passo in avanti verso il riconoscimento del diritto del paziente a rifiutare le cure, atteso che nell’ordinanza viene riconosciuta l’esistenza di un diritto soggettivo, garantito dall’articolo 32 della Costituzione, di richiedere l’interruzione della terapia medica, ma lo ritiene, al contempo, privo di tutela giuridica. La legislazione positiva, osserva il giudice, è, infatti orientata in senso contrario, richiamando l’articolo 5 del codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e gli articoli 575, 576, 577, 579, 580 del codice penale, che puniscono l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. Manca, secondo il giudice, nel sistema giuridico italiano una normativa specifica atta a regolamentare le decisioni di fine vita in un contesto clinico. Il magistrato, dunque, riassume lucidamente il contesto normativo relativo al fine vita, ma sottolinea che è vero, l’art. 32 Cost. pone un diritto positivo per il singolo, il diritto a rifiutare le cure mediche, ma non trovando legislazione in materia, il giudice è costretto a fare un passo indietro, ammettendo la marcata antinomia normativa su tale materia. Probabilmente, il magistrato avrebbe potuto risolvere il contrasto normativo, atteso che si trovava di fronte ad un dettato costituzionale, tuttavia l’assenza di una disciplina in tale ambito gli faceva ritenere che ciò non era possibile per via giudiziaria, ovvero ammetteva che il giudice ed il legislatore sono due entità separate e che il primo non può sostituirsi al secondo.
Malgrado la negazione, Welby continua a sostenere l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione, tanto che, data l’impossibilità di staccare il respiratore con l’assenso del giudice, il paziente decide di procedere comunque, avendo trovato un medico anestesista disponibile a venir incontro alle sue esigenze. Il medico, dott. Mario Riccio, si reca presso l’abitazione di Welby il giorno 18 dicembre 2006, per accertare l’evoluzione della patologia e per raccogliere le volontà del paziente, che conferma, ancora una volta, di voler essere sedato e staccato dal respiratore artificiale . Due giorni dopo il medico procede prima alla sedazione del paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico. La morte, come afferma il referto medico-legale, sopraggiunge nell’arco di mezz’ora, per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una grave insufficienza respiratoria, causata dalla malattia, la distrofia scapolo-omerale progressiva. È proprio dopo la morte di Welby che si apre la fase cruciale relativa al riconoscimento del diritto in questione. Probabilmente, dato il risalto mediatico, ci si aspettava la dura condanna di un medico che ha aiutato un paziente a morire, ha omesso il soccorso quando è sopraggiunta la crisi respiratoria, dando, tuttavia, priorità alla volontà del paziente. In effetti, attesa la legislazione esaminata e il parere contrario della magistratura, tutto faceva ritenere che il dott. Riccio sarebbe stato condannato. Tuttavia, il primo esame che si apre sul comportamento del medico è quello dell’Ordine dei medici di Cremona, a cui Riccio appartiene; gli elementi presi in considerazione sono due, da un lato la volontà “chiara, decisa e non equivocabile” del paziente “perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi” e “pienamente consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte”; dall’altro il fatto che l’anestesista “non ha somministrato farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte” e che la sedazione terminale è risultata “per posologia di farmaci, modalità e tempi di somministrazione, in linea con i normali protocolli”. Per questi motivi la Commissione disciplinare dell’ordine dei medici di Cremona dispone l’archiviazione del caso, tramite un provvedimento datato 1 febbraio 2007.
Un secondo esame viene condotto, in sede penale, dalla Procura della Repubblica di Roma, con un esito molto simile a quello dell’ordine dei medici, con richiesta di archiviazione del caso. La conclusione si basa sull’esito della consulenza medicolegale, che esclude qualsiasi nesso tra la sedazione ed il decesso del paziente, indicando quale unica causa di morte l’insufficienza respiratoria relativa alla malattia. Tuttavia, la richiesta di archiviazione, avanzata dal sostituto procuratore viene respinta dal giudice per le indagini preliminari di Roma che richiede il rinvio a giudizio per il medico Riccio, reo, secondo il GIP, di aver commesso omicidio del consenziente, reato previsto dall’articolo 579 del codice penale, che contempla la reclusione fino a 15 anni.
Il procedimento, tuttavia, si conclude nel luglio 2007 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del medico; in effetti, il giudice per l’udienza preliminare di Roma, attenendosi al dettato costituzionale, mette in luce che nell’ordinamento italiano “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, riferendosi, peraltro all’art. 13 Cost., secondo il quale “la libertà personale è inviolabile”, desumendo da ciò il diritto all’autodeterminazione del paziente e sovvertendo le motivazioni del GIP, facendo notare che la gerarchia delle fonti del diritto vede, comunque, la prevalenza del Testo costituzionale, ovvero di un dettato improntato al rispetto delle volontà del paziente e al diritto a disporre del proprio corpo, anche attraverso il rifiuto delle cure mediche. La sentenza di assoluzione rileva, inoltre, che il diritto al rifiuto delle cure è confermato anche dall’articolo 5 della Convenzione di Oviedo, che, “sebbene non ancora in vigore nel nostro ordinamento, vale comunque quale criterio interpretativo per il giudice, in quanto enuncia principi conformi alla nostra Costituzione”. Il giudice, Zaira Secchi, al contrario di quello che rifiutò l’istanza di Welby, mette in luce, inoltre, che, si, non esiste legislazione in materia, ma vi è un dettato costituzionale, peraltro interpretato dalla Corte attraverso una giurisprudenza costante. È, dunque, in questa fase che viene in rilievo, quale causa giustificativa dell’assoluzione, la giurisprudenza della Consulta, in particolare le pronunce nn. 45/65, 161/85, 471/90, 238/96, nelle quali si afferma che il diritto al rifiuto delle cure è un “diritto inviolabile della persona, immediatamente precettivo ed efficace nel nostro ordinamento, rientrante tra i valori supremi tutelati a favore dell’individuo”. Il giudice riconosce, come da richiesta di rinvio a giudizio, che il comportamento del dott. Riccio rientra nella norma che punisce l’omicidio del consenziente (art. 579 del codice penale), ma osserva, altresì che la condotta del medico si è realizzata nel contesto di una relazione terapeutica e, quindi, sotto la copertura costituzionale del diritto del paziente di rifiutare trattamenti sanitari non voluti. Per tali motivazioni, il dott. Riccio risulta non perseguibile, secondo la sentenza, perché ha adempiuto ad un dovere e, in quanto tale, rientra nella causa di non punibilità, così come stabilisce l’articolo 51 del codice penale.
Il caso Welby mette in luce degli elementi fondamentali, poiché, da un lato, nell’iter giudiziario del caso, si nota come un magistrato abbia chiaramente messo in luce l’innegabile vuoto normativo dell’ordinamento italiano; dall’altro, la sentenza che assolve il medico evidenzia l’esistenza del diritto a rifiutare le cure mediche, poiché esso non ha bisogno di una norma, è direttamente operativo in quanto diritto costituzionalmente garantito. Si tratta della visione del giudice Secchi, il quale smentisce, o meglio, smonta, la tesi precedentemente sostenuta relativa al vuoto normativo, dicendo che non vi sono norme attuative dell’art. 32 Cost., ma vi è non solo il dettato costituzionale, ma costante giurisprudenza della Corte costituzionale. Due visioni diametralmente opposte, dunque, ma entrambe veritiere, poiché il vuoto normativo, non ancora colmato, rende più difficile la risoluzione dei casi relativi al fine vita, a meno che non si faccia diretto riferimento alla Costituzione, ma ciò, preme sottolinearlo, nel caso Welby è stato, in qualche misura più semplice, poiché vi era la volontà non equivocabile del paziente.
Il caso Englaro, in effetti, apre nuovi e diversi scenari, poiché la volontà poteva solo essere desunta dalla vita condotta dalla paziente prima dell’incidente che l’aveva ridotta in stato di coma irreversibile e permanente, definito, sovente, in letteratura medica come “stato vegetativo”. La paziente, nutrita con sondino nasogastrico, respirava in maniera del tutto autonoma, tuttavia non era capace di intendere e volere, tanto che nel 1999 inizia la battaglia legale di Beppino Englaro, padre di Eluana, per poter sospendere l’alimentazione della paziente. Il caso, però, è molto più complesso di quello Welby, giacché l’applicazione dell’art. 32 Cost. diviene pressoché impraticabile, atteso che la paziente, caduta in coma all’età di vent’anni, non aveva la possibilità di esprimere la propria volontà. Peraltro, Eluana non era attaccata ad un dispositivo medico per la ventilazione artificiale, dunque ci si domandava se la mera nutrizione del paziente che, pur essendo in coma irreversibile, respira, sia da considerarsi come “cura medica” e per ciò stesso ricadente nella fattispecie indicata dall’art. 32 Cost. Siffatte argomentazioni, nel 1999, inducono il Tribunale di Lecco a respingere la richiesta di Beppino Englaro di lasciar morire la figlia, poiché il supporto alla nutrizione non viene visto come una cura medica. Il caso è molto più particolare del precedente, atteso che il padre di Eluana induce a ragionare sul concetto di dignità umana, sostenendo che quella vita a cui la figlia era stata costretta per una mera fatalità era lesiva della dignità umana, visto che la ragazza non aveva possibilità alcuna di condurre un’esistenza normale. Il dibattito attorno al caso si apre ben presto, poiché il concetto richiamato da Beppino Englaro scuote le coscienze, rientra, senz’altro in un ambito privato, ma impone una domanda, cos’è la dignità umana, quando viene violata e, soprattutto, può essere motivo per sospendere l’alimentazione artificiale? Si diceva precedentemente che parte della dottrina invoca tale concetto come elemento ostante al diritto all’autodeterminazione, ma altra parte, ritiene che la mera sopravvivenza non è dignità.
Beppino Englaro è convinto che Eluana non avrebbe voluto vivere in questo stato e nel 2003 presenta nuovamente la richiesta di sospensione dell’alimentazione artificiale per la figlia, prontamente respinta dalla Corte d’Appello, poiché non considerata “cura medica”. L’uomo, tuttavia, non demorde, continuando a sostenere che il coma irreversibile è lesivo della dignità della figlia, mentre la morte potrebbe restituirgliela. Nel 2007 si pronuncia, dunque, la Corte di Cassazione, tramite la sentenza numero 21748/2007, con la quale rinvia di nuovo la decisione alla Corte d’Appello di Milano, sostenendo che il giudice può autorizzare l’interruzione delle cure o dell’alimentazione artificiale in presenza di due circostanze concorrenti: in primo luogo, occorre che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”. In secondo luogo, la Corte sostiene che è necessario, altresì “che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della volontà del paziente medesimo, tratta dalle
sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”. È proprio la seconda causa quella fondamentale ai fini di un’analisi giuridica, poiché la volontà diviene, in ogni caso, elemento imprescindibile e collega il caso Welby a quello Englaro, ma compie un notevole passo in avanti, atteso che la Cassazione si riferisce ad un paziente incapace di intendere e volere, le cui volontà devono essere desunte dallo stile di vita condotto in precedenza dal paziente, dalle sue eventuali dichiarazioni, ponendo fine in tal modo alla querelle dottrinaria relativa al concetto di dignità umana. In effetti, la Cassazione, sposta il focus della questione, non è rilevante se sia dignitoso o meno vivere in quelle condizioni, giacché ciò rientra irrimediabilmente in convinzioni personali, quello che rileva è, ancora una volta, la volontà del paziente, desumibile, secondo la Corte, dalla personalità dello stesso, chiamando in causa, perciò, coloro che conoscevano il paziente, come è avvenuto nel caso Englaro, in cui non soltanto i familiari della ragazza hanno testimoniato l’inequivocabile volontà di Eluana di lasciarsi morire in siffatte condizioni, ma lo hanno fatto anche coloro che la conoscevano, portando alla luce commenti e convinzioni della paziente allorquando a cadere in coma irreversibile fu una persona di sua conoscenza. Il 9 luglio 2008 la Corte d’Appello di Milano riesamina la vicenda alla luce di tali dichiarazioni e autorizza il padre, Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzata che mantiene in vita la figlia Eluana.
La vicenda, tuttavia, non si conclude quel giorno, poiché il 16 luglio 2008 Camera e Senato sollevano un conflitto di attribuzione contro la Cassazione, ritenendo che la sentenza dell’ottobre 2007 costituisce “un atto sostanzialmente legislativo, innovativo dell’ordinamento normativo vigente”, cosa che spetta solo al legislatore, che può tenere conto della volontà popolare, essendo organo elettivo. Un simile conflitto di attribuzione non ha precedenti nella storia della Repubblica, tanto che per dirimerlo è stata chiamata la Corte costituzionale, la quale nell’ottobre 2008 si pronuncia a favore della Cassazione e della Corte d’Appello di Milano, ritenendo che la sentenza in questione non sia affatto innovativa di un ordinamento basato su una Costituzione che garantisce il diritto di rifiutare le cure mediche e il rispetto della volontà del singolo. Il caso, però, continua a toccare le coscienze non solo della gente, ma anche di un Governo, fin troppo ideologicamente orientato, che il febbraio 2009 approva con urgenza un decreto legge per evitare la sospensione di alimentazione e idratazione dei pazienti in stato vegetativo, ma il Presidente della Repubblica rifiuta di firmare il decreto definendolo palesemente incostituzionale. Alle ore 20 dello stesso giorno e malgrado il monito del Presidente della Repubblica, il Consiglio dei Ministri si riunisce in una sessione straordinaria per dar vita ad un disegno di legge con gli stessi contenuti del decreto precedente; il lunedì 9 febbraio 2009, nonostante il Senato osservi la chiusura in quel giorno, si riunisce ugualmente per discutere del disegno di legge n. 1369. Quello stesso giorno, nella serata, arriva la notizia della morte di Eluana, alla quale erano state progressivamente sospese alimentazione e idratazione a partire dal 6 febbraio. Il Governo ritira il disegno di legge e si ripropone di ridiscutere in maniera più dettagliata di disposizioni in materia di fine vita e testamento biologico, proposito, ad oggi, disatteso.
Come si accennava, ciò che appare chiaro nell’ordinamento italiano è il timore del legislatore di intervenire e colmare il vuoto normativo relativamente a questo tema, il che induce, in maniera diretta, il potere giudiziario a fare le sue veci, ma attraverso un impianto normativo già del tutto in grado di riconoscere il diritto al fine vita. Ciò significa che una norma non si porrebbe in contrasto con la legislazione interna se fosse in grado di conciliare i Codici e la Costituzione, per non spingersi oltre, ovvero verso l’auspicio della revisione dei Codici stessi. Si tratta di una situazione quantomeno singolare, atteso che il legislatore interviene per lamentare conflitti di attribuzione, ma non si adopera perché a tali conflitti si possa porre fine in maniera definitiva, eppure potrebbe farlo.
In effetti, il punto di partenza è costituito dall’art. 32 Cost., grazie al quale il legislatore potrebbe intervenire attraverso una norma relativa al fine vita ed al testamento biologico, atteso che tanto per la lettera, quanto per l’interpretazione di questa, il concetto fondamentale riposa sull’impianto volontaristico della persona. In effetti, la salute, come afferma il primo comma del suddetto articolo, è senza dubbio un dovere civico, ma il secondo comma sostiene, altresì, che imporre le cure mediche equivale ad una sorta di violenza perché in contrasto con la volontà dell’individuo. Il secondo comma dell’articolo 32 e l’articolo 13 della Costituzione tutelano, dunque, un diritto fondamentale dell’individuo, che è uno dei capisaldi delle costituzioni liberali e che risale all’Habeas corpus, riconosciuto già nel 1215 dalla Magna Charta Libertatum, secondo la quale l’individuo ha disponibilità totale del proprio corpo. Nessuno, fatto salvo un giudice, che ritiene violata una legge, può privare un cittadino del potere sul suo corpo attraverso la detenzione o, in taluni ordinamenti, la pena di morte.
Ciò che appare auspicabile è l’intervento di una legge in grado di coniugare la salute come interesse collettivo e la volontà del paziente di rifiutare le cure mediche. Non appare affatto un’impresa titanica, atteso che il legislatore avrebbe dalla sua parte il Testo costituzionale, in base al quale una legge sul testamento biologico potrebbe trovare fondamento. Tuttavia, casi come quello Englaro non rientrerebbero in una simile fattispecie, per cui il legislatore, tenendo conto della giurisprudenza in materia, dovrebbe codificare quanto la Cassazione ha sottolineato e la Corte costituzionale “ratificato”: l’ordinamento italiano riconosce il diritto a rifiutare le cure mediche e a lasciarsi morire, lo fa in maniera tacita, o, meglio, nella speranza che a tale diritto dia voce il legislatore, senza lasciare più l’arduo compito alle Corti.
ho letto con molta attenzione la vostra relazione e sono sempre più convinto che è un diritto inviolabile da parte di una persona in grado di intendere e volere decidere della propria persona e delle proprie scelte , anche se queste potrebbero causargli la fine della propria vita, sempre che le proprie scelta non violino il diritto altrui.
Non vedo ragione che altri abbiano il diritto di decidere per un altra persona .
credo che non si possa interpretare l’art.32 della costituzione, è un diritto inviolabile decidere della propria vita
Vi ringrazio
Gabriele Busatto